mercoledì 22 febbraio 2017

Gioco e serietà di Ananda K. Coomaraswamy



L’interessante conferenza di Kurt Riegler, pubblicata in un precedente numero di questa rivista con lo stesso titolo di queste note, ed il mio articolo Lila, apparso su The Journal of the American Oriental Society (Vol. LXI, 1931), trattano alcuni aspetti complementari della nozione di attività giocosa: v’è una certa convergenza di idee, che trova un punto di incontro nella citazione di Eraclito fatta da entrambi.
L’interesse di Riegler si orienta in modo particolare sulla distinzione fra mero gioco e qualcosa di ben più serio; il mio, sulla assenza di distinzione tra gioco e lavoro qualora vengano considerati da un punto di vista più elevato. Secondo quest’ultima prospettiva, quel quid di divino che è in noi, il nostro vero “Sé”, o “Anima dell’anima”, è l’impassibile spettatore delle vicissitudini cui sottostanno i suoi veicoli psico-fisici (Maitri Upanishad, II, 7; III, 2), è chiaramente non “interessato” a queste vicende e non le prende seriamente: proprio come uno spettatore che non prende sul serio le vicende dei personaggi di una rappresentazione teatrale, ché altrimenti non si potrebbe dire che stia assistendo alla rappresentazione, bensì che vi sia direttamente coinvolto. Quando Platone più volte afferma che gli affari umani «non dovrebbero essere presi troppo seriamente» … (Leggi, 803 B, C, e Apologia, 23 A) e quando ci viene raccomandato di «non pensare al domani» (Matteo VI, 34), sicuramente si vuole fare appello alla parte migliore di noi, a quella con cui ci identifichiamo se «conosciamo chi veramente siamo».

Non dobbiamo tuttavia confondere tale mancanza di “interesse” con ciò che comunemente si intende con il nome di “apatia” e con l’inerzia che è ritenuta una conseguenza di tale atarassia, Tutto ciò che l’apatia realmente implica è ovviamente una indipendenza dalla motivazione “piacere-dolore”; essa non esclude di certo ogni attività …, ma solo quella imposte da condizioni che non siano di nostra scelta. L’apatia è equilibrio spirituale e affrancamento dai limiti inerenti al sentimentalismo. Ancora oggi siamo coscienti del fatto che un uomo di Stato disinteressato governerà meglio di uno che abbia degli interessi personali da curare; non per nulla «la tirannia non è se non una monarchia che governa nell’interesse del monarca» (Aristotele, Politica, III, 5). Un buon attore è colui per il quale «recitare è la cosa che più conta» e non colui che vi scorge solo una opportunità per esibirsi. Un medico chiamerà un altro medico per operare un componente della sua famiglia, proprio perché un estraneo sarà meno “interessato” al destino di sua moglie o di suo figlio e quindi meglio qualificato per combattere contro la morte. «È contrario alla natura delle arti proporsi un fine che non sia il loro proprio oggetto» (Platone, Repubblica, 342 BC).
I giochi in se stessi, per i nostri contemporanei, sono “insignificanti”. Ma ciò è anormale, e se vogliamo considerare gioco e serietà da un punto di vista più universalmente umano, dobbiamo ricordare che i “giochi”, che per noi comprendono tutta la gamma delle gare atletiche, le esibizioni acrobatiche, le rappresentazioni teatrali, i giochi di prestigio, il gioco degli scacchi, le scommesse e gran parte dei giochi corali dell’infanzia e di quelli tramandati dal folklore, tutte quelle cose cioè che non siano semplicemente ingenue capriole, non sono meramente esercizi fisici, spettacoli, o divertimenti aventi un valore igienico o atletico; essi invece posseggono invece un preciso significato metafisico. Platone si chiede: «Dobbiamo noi sempre vivere giocando? e se così è, a quale tipo di giochi dobbiamo dedicarci?»; e risponde: «... a giochi quali la pratica dei sacrifici, del canto e della danza, per mezzo dei quali possiamo ottenere il favore degli dei e sconfiggere i nostri avversari» (Leggi, 803 D.E.). Anche se la parola latina “ludus” ha dato origine all’aggettivo inglese “ludicrous” (= ridicolo), per i Romani significava invece: «Ludi, gare pubbliche, giochi, rappresentazioni, che si davano in onore degli Dei».
In- un gioco non vi è in vero nulla da guadagnare se non «il piacere che rende perfetta l’azione» e la possibilità di comprendere che cosa sia propriamente un rito, quindi non dobbiamo mai giocare negligentemente, ma nemmeno come se la nostra vita dipendesse dalla vittoria, Il gioco implica ordine. Di un uomo che vuole ignorare le regole del gioco (come potrebbe esser tentato di fare se il risultato fosse per lui la cosa più importante), diciamo che «non sa stare al gioco»; se si è così “interessati” alla posta da «colpire sotto la cintola», non si avrà un duello, ma qualcosa assai simile a un tentato omicidio. È vero che non barando si rischia di perdere: ma il vero scopo del gioco è che non si gioca solo per vincere, bensì per recitare una parte, quella conforme alla nostra propria natura; e ci compete solo il giocar bene, a prescindere da un risultato che non possiamo prevedere. «Noi possiamo dominare soltanto l’azione, non il frutto dell’azione: perciò fa che non sia il frutto dell’azione a farti agire, e nello stesso tempo non esitare ad agire» (Bhagavad-Gîtâ, II, 47). «Le battaglie si perdono con lo stesso spirito con cui si vincono» (Whitman); la vittoria dipende da molti fattori che sfuggono al nostro controllo, e non sta a noi di preoccuparci di ciò di cui non siamo responsabili.

L’attività divina è chiamata “gioco” precisamente perché si presume che Dio non abbia fini propri da perseguire; analogamente può essere “giocata” la nostra vita e, nella misura in cui la parte migliore di noi entra nel gioco senza appartenere al gioco, la nostra vita diventa un gioco. A questo punto non facciamo più distinzione tra gioco e lavoro.

A. K. Coomaraswamy

(Traduzione di U. Zalino)


* Pubblicato in The Journal of Philosophy, vol. XXXIX, n. 20, 24-7-1942.
e tradotto da U. Zalino sul n°36 della Rivista di Studi Tradizionali - Gennaio – Giugno 1972

 


 

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